UN USO INEDITO DELLA RELIGIONE ..L'islam «new age» della borghesia egiziana
Trent'anni dopo l'inizio dell'ondata dell'islam politico, che sembrava dover coinvolgere l'Egitto e tutto il mondo arabo, assistiamo ora a una nuova modalità d'uso della religione, più in sintonia con i valori della globalizzazione liberista. Il velo si porta secondo i crismi della moda internazionale, mentre i telepredicatori esaltano il successo individuale e la «cura di sé». Ma questo liberalismo islamizzato ignora i problemi sociali che dilaniano il paese.
Nella seconda metà degli anni '90 la scena politica egiziana ha vissuto alcuni mutamenti fondamentali. Paradossalmente l'attentato spettacolare e sanguinario contro i turisti a Luxor nel 1997 ha segnato la fine della violenza dei gruppi islamisti. La «nuova generazione» islamista (al-Gil al-Gadid) si è convertita ai principi della democrazia liberale comuni ai programmi di tutti i partiti sorti all'insegna della religione: Al-Wasat (il centro), Al-Islah (la riforma), al-Shari'a (la sharia).
I Fratelli musulmani, la più importante fra le organizzazioni islamiste, alternativamente tollerati e repressi, vengono a patti con i nemici di un tempo: alleanze con i marxisti laici del Partito di unità progressista e del Partito nasseriano in occasione delle campagne di appoggio ai palestinesi, avvicinamento al partito del presidente Hosni Mubarak, in occasione della gigantesca manifestazione contro l'intervento americano in Iraq allo stadio del Cairo, il 27 febbraio 2003.
Tutti questi sviluppi hanno svuotato di forza e di significato quella spirale continua che aveva legato l'islam ufficiale all'islam politico, alimentando la dinamica dell'islamizzazione per un quarto di secolo.
I vari protagonisti di questa «guerra fredda» hanno subìto un vero e proprio tracollo d'immagine: l'università Al-Azhar, polo dell'islam ufficiale, è criticata per i compromessi con il regime e, fra i giovani dei centri urbani, spesso i suoi ulema sono considerati «ormai superati, gente che vive chiusa nella sua torre d'avorio». I Fratelli musulmani, indeboliti dai loro legami - più presunti che reali con la violenza che ha imperversato per cinque anni in tutto l'Egitto - hanno visto tramontare l'aura e il prestigio di cui godevano negli anni '80.
Per quanto riguarda i gruppi radicali, sono scomparsi completamente dalla scena, oppure si sono rifugiati ai margini del mondo musulmano (alleanza dell'organizzazione del jihad con il movimento di Osama bin Laden tramite Ayman Zawahri). In questo contesto sono sorti nuovi protagonisti religiosi: predicatori dallo stile molto vicino ai televangelisti americani, artiste pentite o riconvertite, predicatrici borghesi autoproclamatesi all'origine dell'invenzione della tradizione del «salotto islamico» si moltiplicano in seno alla borghesia, gruppi di predicazione musicale, intellettuali islamisti «indipendenti».
Questi differenti operatori hanno quattro punti in comune: provengono quasi tutti dai settori laici dell'insegnamento, e la loro sapienza religiosa è stata acquisita in maniera dilettantesca; sono giovani e, provenendo dagli ambienti privilegiati, ben inseriti nella società; sono impegnati in iniziative di sincretismo tra i diversi modelli culturali e il referente islamico, che perde la sua centralità; infine, proclamano una duplice rottura, sia sul versante dell'islam ufficiale che su quello dell'islam politico.
Si realizza un avvicinamento a valori che non hanno nulla di rivoluzionario e che sono tipici degli young urban professionals (yuppies) che vivono giorno per giorno e secondo i valori del futuro in declino: individualismo, edonismo, benessere, consumi. Per farla breve, per una parte del grande movimento islamista, viviamo in un'era di abbandono della politica. È emblematica la sorte dello hijab, il velo islamico, fiore all'occhiello del «risveglio dell'islam» negli anni '70. Non è più quel segno di rifiuto dell'occidente che ha potuto essere all'inizio; il suo significato abbozza i contorni di una forma di islam non islamista: fine dell'ossessione identitaria, articolazione sulle realtà della globalizzazione, ricomposizione attraverso il mercato e la difesa dei consumatori.
Il velo griffato Se trova ancora rari acquirenti sui sagrati delle moschee, il velo è stato recuperato alla grande dal mondo dell'abbigliamento. Nelle boutiques per donne velate, lo hijab viene indossato secondo gli stili della moda internazionale, a cominciare dai nomi stessi delle boutiques: Al-Muhajaba Home, Al-Salam Shopping Center, in inglese sui cartelloni pubblicitari, Flash o L'Amour, questa volta in francese.
Tante qualifiche che non figurano affatto nel programma identitario dell'islamizzazione; e non sono certo in sintonia con l'etica del pudore! Frequentando questi templi, la «donna velata liberale» (al-muhajabba al-mutaharrira) ha già fatto venire i capelli bianchi agli integralisti: «Indossando un velo con una griffe parigina e parlando in inglese ai suoi figli» si attira la condanna sia dei militanti dei Fratelli musulmani che dei predicatori, che invocano invano l'onniscienza dello «sguardo dell'Altissimo».
Lo stesso itinerario di adattamento alla globalizzazione avviene per il nashid, il canto religioso. Questa vecchia usanza, ereditata dal sufismo, è stata ripresa all'inizio degli anni '70 dai gruppi islamisti nei campus universitari. La loro fonte d'ispirazione erano gli scritti dei militanti in carcere, che esaltavano il jihad, il martirio, l'eroismo, e condannavano gli arbitri del potere. Per un decennio, come per il velo nei primi tempi nei campus universitari, la politica era tutto: slogan militanti incentrati sulla critica dello stato, niente strumenti musicali ritenuti illeciti. In un secondo tempo, sotto l'influsso degli inni del nazionalismo islamico durante la prima intifada (1987), si passa all'accompagnamento musicale: tamburi, poi la batteria e infine il sintetizzatore.
Alla fine degli anni '80 si formano due gruppi e negli ambienti islamisti si comincia a invitarli ad accompagnare i «matrimoni islamici» sempre più diffusi. I temi del nashid si modificano: appaiono l'amore, la felicità, la poesia, sia per l'avvento di una gioventù meno attivista che per l'esistenza di vincoli strutturali nelle cerimonie nuziali, che poco si prestano agli slogan militanti.
Poi, fin dalla seconda metà degli anni '90, i gruppi assumono un carattere professionale, si allarga la gamma degli strumenti, le esibizioni cominciano a farsi a pagamento e i gruppi entrano sul mercato delle audiocassette. Soltanto due all'inizio degli anni '90, i gruppi di nashid sono già una cinquantina dieci anni dopo. Il repertorio del jihad è ormai finito nel dimenticatoio, i gruppi si inseriscono sempre più decisamente in una logica di concorrenza con le star della musica pop egiziana, nel contesto di predicazioni più «soft». Come queste ultime, oscillano fra il registro romantico e i grandi slanci nazionalisti legati alla causa della Palestina e dell'Iraq. Con nomi a volte estranei al registro religioso come Al-Wa'd (la Promessa) o Al-Gil (la Generazione), il nashid continua a vivere nell'amalgama con ritmi non arabi, il pop anglosassone, il jazz o il rap.
In entrambi i casi, sia per lo hjiab che per nashid, l'ingresso nel mondo del consumo e del mercato, il sincretismo con modelli non arabi (il pop anglosassone, la moda internazionale) hanno portato ad una forma di contestazione implicita, non soltanto del puritanismo che li aveva guidati durante gli anni '70 e '80, ma soprattutto del principio stesso della ideologizzazione dell'aspetto religioso.
Questa oscillazione dei valori è tutt'altro che aneddotica: si potrebbero ricostruire percorsi analoghi per l'economia islamica, sempre meglio inserita nel flusso della finanza internazionale (1), o per la carità islamica, rielaborata, nell'ambito della visione neoliberista, come rete di sicurezza che accompagna una dinamica di ritiro dello stato largamente rivendicato dagli islamisti. Si ritrova questa evoluzione in una frazione della borghesia praticante che si avvicina a una forma di New Age religioso ben noto in occidente, in cui ci si accosta allo stesso modo alle spiritualità dell'Asia. Magda Amer, giovane predicatrice della borghesia cairota, si appassiona per i chakra (2), lo yoga, la macrobiotica, la riflessologia. I suoi corsi di conferenze sull'islam e le medicine alternative appassionano le donne della buona società che frequentano la moschea Abu Bakr Al-Sid-diq, dove lei predica, nella periferia benestante di Heliopolis.
«Etica protestante» e «cura di sé» ... la predicazione light di Amr Khalid, giovane predicatore di 36 anni, è l'incarnazione più compiuta di questa svolta. Non ci sono voluti nemmeno quattro anni a questo ragazzo di buona famiglia per imporsi come il predicatore più popolare del mondo arabo, fino alle periferie francesi. La ricetta del suo successo: aver saputo collocarsi al di fuori della rivalità tra islam politico e islam ufficiale, proponendo un prodotto religioso in sintonia con le aspettative moderne delle borghesie urbane, vale a dire una fede mondana che pone l'accento sulla pace interiore e sugli equilibri spirituali, il rifiuto di una pratica religiosa che si esaurisce nel rispetto del rituale, il rifiuto della visione di un Dio castigatore...
Rifiutando i crismi dello sceicco tradizionale, Amr Khalid preferisce il mento rasato alla barba, il completo giacca e cravatta alla jellaba bianca, il dialetto egiziano all'arabo classico. Si pone in netto contrasto con la predica salafista classica, invocando invece una predicazione in cui Dio è amore. È lui il primo che, imitando il modello dei telepredicatori americani, ha importato il talk-show religioso nel mondo arabo, subito ripreso da quelli che ormai vengono definiti «nuovi predicatori» (Khalid Al-Guindy, Al-Habib Aly, Safwat Hegazy...).
Teleprediche e management Il suo grande messaggio: è necessario «riconciliare la religione e la vita». L'insistere sull'osservanza non suppone sacrifici, bensì «piccole correzioni»; essere religioso non vuol dire rinunciare ai piaceri della vita. Proprio per questo Khalid ama farsi fotografare in maglietta allo stadio insieme a qualche star della palla rotonda, un modo di esprimere concretamente l'equilibrio fra il corpo e lo spirito. Si è ben lontani dal jihad, o anche semplicemente dalla politica, come ha capito alla perfezione quello sceicco di Al-Azhar, un po' cinico, che a proposito di Khalid, parlava di «da'wa diet» (predicazione light), mentre, fra le fila dei Fratelli musulmani, il suo discorso è definito «islam all'aria condizionata».
Il solo progetto di Khalid è di moralizzare i giovani del Cairo e di Alessandria, offrendo loro un discorso religioso, portatore dei valori di autorealizzazione tipici della modernità liberale: ambizione, ricchezza, successo, assiduità sul lavoro, efficienza e cura di sé.
Propone loro il modello della ricchezza virtuosa e della salvezza attraverso le opere, come spiega, senza tante perifrasi, uno dei suoi adepti: «La ricchezza è un dono del cielo. Di conseguenza, il musulmano fortunato è il prediletto di Dio, perché spenderà la sua fortuna in opere di beneficenza».
È proprio questa l'intenzione di Khalid, che, in uno dei suoi slanci di entusiasmo, ha gridato al suo pubblico: «Voglio essere ricco perché la gente mi guardi e dica"guarda un po': un religioso ricco" - e ameranno Dio tramite la mia ricchezza. Voglio avere il denaro e gli abiti più belli, per fare amare alla gente la religione di Dio».
Valorizza incessantemente l'impegno, raccomanda un impiego efficiente del tempo, e parte lancia in resta contro lo spreco del tempo e...
gli eccessi del sonno. Molto imprenditoriale, Khalid ritiene che «il primo punto nella costruzione di una vita seria, è la necessità di definire i propri obiettivi, e inserirli per iscritto da qualche parte». Nella stessa ottica, invita il suo pubblico a essere «produttivo nell'aiuto prodigato agli amici, produttivo nel compimento delle opere, produttivo per lo sviluppo della società». E da lì passa a valorizzare l'ambizione: «Una delle prove dell'amore di Dio, è il fatto di spingerti a essere ambizioso, di darti l'ambizione di salire sempre più in alto, di innalzarti sempre più in alto nella società».
Quanto a lui, c'è riuscito sicuramente: le sue prediche sono attualmente protette dal copyright, ha concesso l'esclusiva ad alcune società di diffusione di cassette, consiglieri religiosi della catena saudita Iqra', e avrebbero addirittura invitato a entrare nel consiglio di amministrazione di alcune banche islamiche. Imprenditore religioso che santifica i valori del mercato nell'ambito di una predicazione spoliticizzata, Khalid è divenuto un prodotto mediatico che si vende bene. La Lbc, canale fondato dalle milizie cristiane libanesi, non ha esitato a sacrificare l'obbedienza confessionale sul tempio sacrosanto del profitto, trasmettendo, in occasione dell'ultimo ramadan, «Wa alqa al-ahibba» (Incontro con la gente amica), il talk-show islamico di Khalid, per fare proseliti fra i paesi del Golfo.
Questo tipo di predicazione non è affatto un fenomeno esclusivamente egiziano. In Indonesia Albdullah Gymnastiar, il predicatore radiofonico più in vista di Jakarta, non si limita alle prediche, ma vi abbina corsi di management e di motivazione. La dialettica con i valori del mercato non finisce qui. Le case editrici islamiste egiziane da cinque anni a questa parte sono state conquistate dal concetto di management. Mohammed Abdel-Gawad, un ex Fratello musulmano, ce ne offre una versione islamizzata in opuscoli quali I segreti dell'amministrazione efficace durante la vita del Profeta. In Marocco, opuscoli dello stesso genere insegnano a porre La Baraqa al servizio dell'impresa, e una casa editrice islamista del Golfo insegna Le dieci abitudini della persona di successo.
Le istituzioni religiose statali non sfuggono a questa tendenza: attualmente al ministero dei beni di manomorta (3), i progetti di riforma pongono sempre più decisamente l'accento sul ruolo sociale della moschea, sulla società civile, sull'autosufficienza. Un conferenziere invitato dall'università Al-Azhar ha addirittura invitato a rielaborare la «da'wa» (predicazione sulla falsariga) del marketing all'americana.
Possiamo guardare con occhio benevolo a queste forme di affermazione del referente religioso. Possiamo anche sorridere di questo sincretismo che si è insinuato nelle diverse manifestazioni del «ritorno dell'islam».
E tuttavia, più che all'ascesa di un umanismo islamico, si assiste al ripristino in chiave islamica della mentalità mercantile e del modello neoliberale, in un contesto in cui l'esasperazione delle sperequazioni sociali rende più urgente che mai l'affermazione di un'alternativa in grado di resistere alla globalizzazione liberista.
Unico elemento nuovo di resistenza ai versetti islamici del pensiero unico, l'interesse crescente dei giovani intellettuali islamisti nei confronti dei movimenti new global - come dimostra l'associazione terzomondista Al-Janub (il Sud) - forse prefigura la ricostituzione di una utopia fondata sull'islam, ma liberata dall'ossessione identitaria.
note:
(1) Si legga Ibrahim Warde, «I paradossi della finanza islamica», Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 2001.
(2) Terme sanscrito che significa «ruota», il chakra, secondo la medicina orientale, è un centro di energia che condiziona l'equilibrio psichico e la salute individuale.
(3) Si tratta di beni (terre, fattorie, edifici, imprese) donati a Dio e che, gestiti dal waqf, organismo di tutela dei beni religiosi musulmani, producono un usufrutto che viene versato alle fondazioni religiosi o agli enti assistenziali.
(Traduzione di R. I.)
Le Monde Diplomatique
Settembre del 2003